Fermo, immobile, ti esce un urlo e lo soffochi. Ti fanno male le gambe perché le trattieni, anche loro immobili, doloranti dalla stretta di una ferita invisibile. Indolenzimento, malessere sono costretti dentro il contenitore che chiami corpo. Non ti dà respiro questa assenza di istintività, ma non vuoi che esca un anelito di emozione da te, non vuoi che nulla ti tradisca. Ti hanno insegnato troppo bene a soffocare i tuoi patimenti e rivelarli sarebbe solo vergogna. Deglutisci, l'unica cosa che ti riesce di fare di fronte a questo ulteriore strazio. Che nessuno sappia, che nessuno se ne renda conto, che nessuno possa prenderti in giro e farti sembrare meno uomo. Fin da piccolo ti hanno cresciuto a pane e orgoglio, un orgoglio smisurato che ti fa perdere il senso del limite. Sei comunque inquieto, in una stretta che ti prende al collo e non ti lascia che un denso affanno. Un uomo non piange mai, sebbene stia affogando in un mare di paure, di angosce. E alla fine sorridi, un sorriso amaro che ti piega la bocca in una smorfia palesemente falsa. E poi ridi, con gli occhi lucidi e la tua risata si trasforma in un urlo pauroso, un latrato di cane morente. E ti inginocchi con gli occhi rivolti al cielo, un cielo incendiato dal tramonto. Lo stesso incendio che c'è in te e che non sai domare. Scendono solo ora le lacrime, la tua pena pian piano cola sulle gote, ma è troppo tardi solo il tramonto è rimasto di fronte a te. Lei se n'è andata, per sempre.
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